Left n. 27 - luglio 2011
La borghesia dei rifiuti:
il volto nascosto della DANECO
Parte prima
Hanno vinto un appalto da 300 milioni, per l’inceneritore di Salerno. Ma sono indagati dalla Lombardia alla Sicilia per reati ambientali, subappalti sospetti, truffa, corruzione. Radiografia del gruppo Unendo-Daneco, di proprietà dei fratelli Colucci. Ecco la prima puntata
di Manuele Bonaccorsi e Anna fava
Trecento milioni di euro di investimenti e circa mezzo miliardo di profitti sicuri per costruire e gestire, per vent’anni, un inceneritore nella città di Salerno. A vincere la gara d’appalto indetta dalla Provincia di Salerno è una delle aziende leader nel settore dei rifiuti: la Daneco, società della holding Unendo, un colosso da oltre 200 milioni di euro di fatturato e oltre 3mila clienti tra le maggiori industrie internazionali, riconducibile alla proprietà dei fratelli Colucci, Pietro e Francesco. Originari di Napoli, sui rifiuti hanno costruito un impero arrivando al punto di acquisire la filiale italiana della Waste management, la multinazionale statunitense dello smaltimento dei rifiuti. La sede della holding è a Milano, a due passi da Piazza Affari. Gli interessi spaziano dalla raccolta dei rifiuti al solare, passando per la gestione di impianti industriali di trattamento e discariche per scarti industriali. Gli “emigranti di successo” ne hanno fatta di carriera, entrando a pieno titolo in quel «ristretto giro di operatori» del ciclo dei rifiuti. Nel 2000 le società della famiglia Colucci vennero analizzate in un’inchiesta parlamentare condotta dalla Commissione Scalia, che giunse a conclusioni preoccupanti: «Se quello descritto non è ancora un cartello – si legge nella relazione finale – è certamente un sistema che presenta elementi rilevanti di distorsione del mercato, con ricadute negative sullo stesso funzionamento delle regole della libera concorrenza». La relazione terminava con l’annuncio di ulteriori approfondimenti, ma finora l’inchiesta non ha avuto seguito. Sono passati 10 anni, e i fratelli Colucci, giunti al culmine della loro ascesa, hanno recentemente deciso di dividere l’impero. A Pietro, fino a pochi mesi fa presidente di Assoambiente (Confindustria), la gestione di Kinexia (energie rinnovabili) e Waste (rifiuti speciali); a Francesco la capogruppo Unendo e la preziosa controllata Daneco. Ma i Colucci sono in cima alle classifiche non solo dal punto di vista economico. Anche il versante giudiziario è degno di nota: amministratori e dirigenti delle imprese della holding sono sotto indagine a Milano, per corruzione e truffa ai danni dello Stato nella bonifica dell’area ex Sisas di Pioltello; a Latina – dove il gruppo è socio di due aziende locali, Terracina Ambiente e Latina Ambiente – per frode nelle pubbliche forniture, con l’ombra di subappalti assegnati a prestanome dei Casalesi; a Benevento Daneco è indagata per disastro ambientale causato dallo sversamento nelle falde acquifere di migliaia di litri di percolato fuoriusciti dalla discarica gestita a Sant’Arcangelo Trimonte; in Calabria, la società Eco Inerti, controllata da Daneco, è sotto processo per aver ottenuto le autorizzazioni per realizzare una discarica per rifiuti speciali in un’area di alto valore paesaggistico falsificando i documenti tecnici sulla conformazione del territorio; in Sicilia le indagini della procura di Palermo sull’affare dei quattro termovalorizzatori voluti dall’ex governatore Totò Cuffaro, condannato per mafia, riguardano anche la costruzione di un impianto a Paternò (Catania), affidato alla Sicil Power, una controllata della Daneco. Tra i soci del colosso dei rifiuti nell’avventura siciliana c’era l’Altecoen, impresa ennese legata al clan dei Santapaola. E non solo: tra consulenti e appaltatori si ritrovano numerosi indagati o condannati per reati ambientali e per mafia. Un curriculum di tutto rispetto per la società che si è aggiudicata l’ennesimo grande appalto dell’infinita emergenza rifiuti. D’altronde, in Italia è noto, quando c’è l’emergenza cominciano i grandi affari.
INCENERIRE, UN BUSINESS SICURO
Un investimento sicuro, quello del termovalorizzatore di Salerno, grazie a due cavilli contenuti nel bando di gara: da un lato la certezza di intascare per otto anni i contributi Cip6 per le energie rinnovabili, versati da tutti i cittadini in bolletta e cancellati nell’intero Paese fuorché per la Campania. Dall’altro la garanzia sottoscritta dalla Provincia di Salerno di poter bruciare, per 18 anni, 300mila tonnellate all’anno di rifiuti. Una stima sovradimensionata in una delle aree più virtuose: nella provincia si producono non più di 500mila tonnellate di monnezza, ma la città di Salerno raggiunge il 70 per cento di differenziata, e nella zona sono molti i Comuni “ricicloni”. A conti fatti, per costruire l’impianto Daneco spenderà circa 300 milioni di euro, ma potrà intascarne oltre il doppio tra conferimento dei rifiuti (la provincia pagherà circa 90 euro per tonnellata portata al forno) e vendita dell’energia (col Cip6 ogni Mw prodotto vale circa 220 euro, contro i 70 euro di un Mw normale). In associazione temporanea di impresa (Ati) con Daneco, che a Salerno gestisce già un impianto di compostaggio anaerobico da 30mila tonnellate, si è presentata la Rcm dei fratelli Rainone, grossa impresa edile salernitana, vicina al sindaco De Luca ma anche al consigliere regionale Pdl Alberico Gambino (condannato in secondo grado per peculato e cognato di Elio Rainone) che gestirà la costruzione dell’impianto. La vittoria è arrivata sulla base della valutazione del progetto tecnico: per quanto riguarda offerta economica e durata della concessione il concorrente del duo Daneco – Rcm, la De Vizia transfer, aveva presentato una proposta più vantaggiosa. Il sindaco De Luca, ex commissario straordinario per l’edificazione dello stesso termovalorizzatore – compito poi “rubatogli” da Cirielli – ora minaccia: «L’inceneritore è inutile, lo impediremo, porteremo le carte in Procura». Per la Daneco, capofila dell’appalto, sarebbe l’ottava inchiesta aperta per i suoi affari in giro per l’Italia.
IL NEROFUMO
L’ultima in ordine di tempo risale a poche settimane fa: i pm Paola Pirotta e Paolo Filipponi, della Procura di Milano, indagano su una presunta tangente da 700mila euro che sarebbe stata versata dall’amministratore delegato della Daneco impianti, Bernardino Filipponi, a uno degli uomini chiave del ministero dell’Ambiente, Luigi Pelaggi, capo della segreteria tecnica di Stefania Prestigiacomo e commissario straordinario per una bonifica milionaria, quella della Sisas di Pioltello. Ed è proprio la Daneco a vincere la gara “drogata”, indetta in deroga al codice degli appalti pubblici, per liberare quest’area del milanese, occupata per 50 anni da uno stabilimento chimico, da qualcosa come 280mila tonnellate di rifiuti, di cui almeno 30mila pericolosi. Dalle indagini, condotte dai Noe di Sergio De Caprio, il capitano «Ultimo», il denaro sarebbe servito a oliare alcuni provvedimenti emessi dal commissario in violazione delle norme ambientali, a tutto vantaggio dei profitti di Daneco. Una vicenda dai contorni oscuri, dove si intravedono carichi di rifiuti tossici che viaggiano nel Mediterraneo e container colmi di sostanze pericolose che spariscono nel nulla o cambiano codice. Ma conviene andare per ordine. La Daneco subentra al lavoro di bonifica nel settembre 2010. Sostituisce la Tr2, azienda guidata da Giuseppe Grossi, imprenditore milanese, vicino a Cl, finito sotto inchiesta (ha recentemente patteggiato la pena) per la mancata bonifica della zona di Santa Giulia, dove un intero quartiere è nato sopra una montagna di amianto e sostanze chimiche pericolose. I tempi sono stretti: il governo ha dichiarato lo stato d’emergenza, nominando Pelaggi commissario straordinario, perché sulla bonifica della Sisas di Pioltello pende una procedura di infrazione dell’Ue: si rischia una multa milionaria. La gara, indetta sulla base di un «progetto di intervento» redatto da Claudio Tedesi, un quotato ingegnere ambientale indagato insieme a Grossi per la vicenda di Santa Giulia, viene assegnata alla Daneco per 35,8 milioni, contro i 49 segnalati nel documento tecnico. Il progetto prevede che l’azienda tratti in loco i rifiuti pericolosi, per spedirli in discariche a norma, all’estero. Tra i siti disponibili, oltre ad alcuni impianti tedeschi e italiani, viene scelta la discarica di Nerva, in Andalusia, gestita dalla società Befesa. Un impianto molto chiacchierato in Spagna: secondo un esposto presentato dal partito spagnolo Izquierda Unida (Iu), Befesa avrebbe falsificato i documenti dei rifiuti in modo da stoccare in discarica sostanze pericolose non trattate, alcune delle quali provenienti dalla Riccobono di Parma. La cattiva gestione dei rifiuti, secondo le interrogazioni parlamentari e gli esposti alla magistratura presentati da Pedro Jimenez, segretario di Iu della Huelva, avrebbero inquinato gravemente il fiume Rio Tinto. La Daneco riceve il permesso dalla giunta dell’Andalusia di esportare in Spagna, alla discarica di Nerva, rifiuti provenienti da terre di bonifica di Pioltello: 60mila tonnellate di rifiuti non tossici (codice Cer 191302) e 25mila tonnellate di rifiuti tossici (Cer 191301*, dove l’asterisco, nella codificazione europea, segnala la pericolosità del rifiuto). Eppure la Daneco, in un documento ufficiale, dichiara di aver inviato a Nerva solo 2.222 tonnellate di rifiuti non pericolosi, e 24.965 di materiali pericolosi (codice 191301*). Fin qui nulla di strano, la Daneco sembrerebbe aver usufruito solo parzialmente del permesso concesso dall’Andalusia. Ma pare che i rifiuti dichiarati da Daneco non siano mai arrivati nel porto di Siviglia, dove erano attesi. Il 23 maggio 2011 l’autorità portuale della città spagnola elenca tutte le navi italiane attraccate al molo della città andalusa tra l’inizio del 2008 e l’aprile del 2011, quando le operazioni di bonifica risultano già concluse. Nel porto di Siviglia, provenienti da Genova, arrivano in 8 diverse navi 22.600 tonnellate di fuliggine pericolosa 061305*, e di nerofumo provenienti da Vado Ligure: di rifiuti provenienti da terre di bonifica, quelle citate nei documenti di Daneco, neanche l’ombra. Eppure la quantità di fuliggine pericolosa giunta a Nerva corrisponde perfettamente a quella che, secondo la relazione di Tedesi, era presente nella zona industriale di Pioltello: 23mila tonnellate di «rifiuti assimilabili a nerofumo pericoloso», codice 061305*. Nella foto che pubblichiamo in questa pagina, scattate dai militanti di Greenpeace, si vede uno dei camion che trasportano il nerofumo proveniente da Pioltello scaricare del materiale senza trattamento, nella discarica di Nerva. Nulla di irregolare, secondo la Daneco, che in un documento del 6 maggio 2011 annuncia candidamente: «Non è stato effettuato alcun tipo di trattamento di inertizzazione presso il sito di Pioltello». Nonostante il Progetto d’intervento a base del bando di gare prevedesse l’uso di trituratori e miscelatori per rendere meno pericoloso il trasporto e lo stoccaggio dei materiali. Per ora, sulla strana vicenda di Pioltello, ci sono solo ipotesi. Secondo le voci che circolano pare che una parte dei rifiuti tossici sia finita persino nella Campania, in piena emergenza “monnezza” (anche se tale viaggio non appare nei documenti ufficiali di Daneco). Molti dubbi, a sentire Greenpeace – che sulla vicenda ha preparato un documento dal titolo emblematico, “Una sporca storia” – provengono anche dalla caratterizzazione dei rifiuti, cioè dall’analisi dei materiali presenti in discarica. A portare in laboratorio i campioni di terreno inquinato, infatti, sono stati sempre tecnici della parte privata. Mentre l’Arpa, l’Agenzia regionale di protezione ambientale, avrebbe apposto il proprio sigillo solo nelle conferenze di servizio utili ad accelerare l’iter dei lavori. Senza realizzare nessuna indagine “indipendente” sul campo. Un’ipotesi smentita dal sindaco di Pioltello Antonio Concas (Pd): «L’Arpa ha piantato qui le tende. Secondo me è tutto in regola. Pelaggi l’ho incontrato da poco in Regione, dice che ha fiducia nella magistratura e tutto sarà chiarito». I risultati delle indagini del Noe chiariranno molte cose. Intanto l’emergenza Pioltello, la cui scadenza era inizialmente fissata ad aprile del 2011, è stata spostata al 31 ottobre del 2011. Manca la bonifica delle falde e dell’area industriale. A gestire gli ultimi lavori, sempre la Daneco: i tempi sono troppo stretti per indire una nuova gara. D’altronde la Daneco coi commissari straordinari è sempre andata d’accordo.
LA SPARTIZIONE
Nella Campania dell’emergenza rifiuti la Daneco ha solo l’imbarazzo della scelta: gli appalti si sprecano. Sono tanti e così ricchi che l’impresa dei Colucci può concedersi il lusso di rinunciare dalla sera alla mattina a un affare da oltre 70 milioni di euro per la realizzazione e le gestione della contrastata discarica di Chiaiano, nell’hinterland di Napoli. Il commissariato straordinario che gestisce la gara d’appalto, indetta nell’estate del 2008, il sottosegretario all’emergenza rifiuti Guido Bertolaso, riceve cinque offerte: la Pescatore di Avellino inizialmente si aggiudica la gara con un ribasso del 36 per cento. La Daneco arriva al secondo posto, seguita dalla napoletana Ibi Italimpianti e dall’emiliana Cmc. La Pescatore però viene estromessa ufficialmente per problemi economici. Anche se in quel periodo agli investigatori è noto che la società potrebbe da un momento all’altro ricevere un’interdittiva antimafia. Ad aggiudicarsi la commessa, alla fine, sembra essere proprio la Daneco. Che però alle 7 del mattino, all’ultimo momento utile, spedisce un fax di rinuncia al Commissariato, lasciando che a vincere l’appalto sia il gruppo Ibi Italimpianti-Edilcar, che ha già realizzato la discarica di Savignano Irpino, nell’avellinese. Le due società della cordata vengono però colpite nel marzo 2011 da un’interdittiva antimafia: la Ibi, infatti, è indagata dalla Procura di Palermo per traffico illecito di rifiuti e per aver svolto dei lavori a Palermo, nella discarica di Bellolampo, subappaltandoli a una società vicina alla mafia palermitana. Secondo il pentito di camorra Gaetano Vassallo, entrambe le società sono legate ai clan Mallardo e Zagaria. Ma per quale motivo Daneco rinuncia all’appalto? La motivazione ufficiale dell’azienda è a dir poco curiosa: Daneco non vuole associare il proprio nome al contesto di Chiaiano, dove migliaia di cittadini si oppongono all’apertura dell’invaso, per non rovinare le proprie quotazioni in Borsa. Ma l’ipotesi non convince il comandante del Noe di Napoli Giovanni Caturano, che durante un’audizione in Commissione parlamentare sui rifiuti riferisce la sua analisi sull’appalto anomalo di Chiaiano: «Apparentemente sembrava una sorta di divisione di interessi». Persa Chiaiano, la Daneco si aggiudica in seguito i bandi salernitani per la costruzione dell’impianto di compostaggio anaerobico e del mega inceneritore. E continua a gestire, in Campania, l’enorme discarica di Sant’Arcangelo Trimonte.
FIUMI DI PERCOLATO
Sono indefinibili le quantità di percolato che – secondo la consulenza tecnica consegnate al pm della procura di Benevento Antonio Clemente dagli esperti Paolo Rabitti e Gian Paolo Sommaruga – si versa nelle falde acquifere che scorrono nel sottosuolo della discarica di Sant’Arcangelo Trimonte, in provincia di Benevento, gestita dalla Daneco. La discarica, attualmente messa parzialmente sotto sequestro dalla magistratura, si trova sulla cima di una collina, in una zona evidentemente franosa: le zolle di terra rovinano verso valle, le strade spaccate si sollevano e gli alberi, le case e i piloni sfidano il senso di gravità inventando nuove geometrie. Una discarica che sta franando a valle, fino al torrente Calore, insieme a tutto il contenuto velenoso. Tanto da costringere i gestori a urgenti opere di consolidamento, per evitare che la valle sia sommersa da una pioggia di monnezza. Il posto peggiore per edificare una discarica. Eppure il 9 maggio 2007, durante un periodo di ciclica emergenza rifiuti in Campania, l’ex presidente della Provincia di Benevento, Carmine Nardone, indica proprio quest’area in località Nocecchie al Commissariato di governo, alla cui testa c’è allora Gianni De Gennaro, impegnato nella disperata ricerca di un sito per una discarica. «Da un primo studio effettuato – scrive Nardone – sembra che sussistano tutte le condizioni per l’idoneità del sito». Dopo due giorni Contrada Nocecchie è inserita nell’elenco dei siti destinati a discarica definiti da un decreto del governo (che verrà convertito nella legge 87 del 2007), ed è riconfermato a pieni voti nella legge speciale 123 del 2008. Guido Bertolaso la definirà: «una discarica modello». Come prevedibile, coi lavori iniziano i primi dissesti: lunedì 11 agosto 2008, in piena estate, una vasca in costruzione inizia a franare a causa del peso dei rifiuti. Il 25 ottobre 2010 il collaudatore statico dell’impianto, l’ingegner Ciro Faella, si rifiuta di apporre la sua firma sul documento di collaudo del quarto lotto dell’invaso. Seguono altre frane e anche uno dei piloni dell’elettrodotto che attraversa pericolosamente la discarica, crolla. La Daneco è costretta ad alzare palificate di cemento armato piantate nel suolo per 40 metri nel tentativo di consolidare l’impianto: varianti in corso d’opera con nuovi “imprevedibili” costi aggiuntivi. I comitati presentano numerose denunce e, finalmente, il 18 marzo 2011, arriva il sequestro: la Procura di Benevento ferma l’impianto per «evitare nuovi e maggiori danni per l’ambiente», e sta svolgendo in queste settimane accertamenti sui subappalti assegnati per la costruzione della discarica. Sotto inchiesta finisce ancora una volta Bernardino Filipponi, il manager messo dai Colucci a capo dell’azienda, insieme a Marco Leone, responsabile tecnico della gestione della discarica. L’accusa, formulata dal pm Antonio Clemente, è di aver provocato «un pericolo di frana e di disastro ambientale»: dalla discarica franata fuoriescono migliaia di litri di percolato che finiscono nei terreni circostanti. Un percolato particolarmente tossico, data la presenza di rifiuti pericolosi – tra cui olii minerali e diossine superiori ai parametri – che secondo la Procura potrebbero aver raggiunto il fiume Calore. Intorno alla discarica, come si vede nelle foto pubblicate in queste pagine, si scorgono strane tubazioni fuoriuscire da una vasca in cemento: dai tubi si riversa un liquido dallo sgradevole odore, che si infiltra in una vasca scavata nel terreno in pendenza, attraversa la strada per finire in un’altra profonda vasca, per poi scomparire. Alcuni metri al di sotto, dal sottobosco fuoriesce un rivolo di percolato che s’incanala in un tubo di cemento che lo convoglia in un “laghetto” che declina verso valle. Verso il fiume Calore, che trasporterà il suo carico di veleni fino al mare.
Left n. 28 - luglio 2011
La borghesia dei rifiuti: il volto nascosto della DANECO
seconda parte
di Manuele Bonaccorsi e Anna Fava
Milioni di euro di appalti in tutta Italia (l’ultimo pari a quasi 300 milioni di euro per il termovalorizzatore di Salerno). E numerose società del gruppo Daneco-Unendo della famiglia Colucci finite sotto inchiesta: l’ultima indagine, scoppiata proprio nelle scorse settimane, riguarda la bonifica della Sisas di Pioltello, in provincia di Milano. Eppure, fino a marzo del 2011, Pietro Colucci occupava la poltrona di presidente dell’associazione delle imprese ambientali di Confindustria. «Sono presidente di Assoambiente – dichiara in un’intervista nel novembre 2010 – e mi vanto di essere uno che ha lavorato in un settore complicato come quello dei rifiuti senza essere stato mai condannato. Mai. Anche se sono stato indagato tante volte». Un imprenditore talmente integro da presentare in tutt’Italia il suo nuovo libro Vento a favore, scritto con l’ex ministro dell’Ambiente Edo Ronchi, alla presenza di politici del calibro di Gianni Alemanno ed Enrico Letta. Nel testo l’ex presidente di Assoambiente, viene descritto come un uomo dal «riconosciuto “pedigree” imprenditoriale per l’intensa attività svolta nel settore della gestione dei rifiuti e della produzione di energia da fonti rinnovabili. A soli 22 anni era già alla guida dell’azienda di famiglia. Oggi è presidente e amministratore delegato di Kinexia, una società quotata in Borsa, attiva nel settore della produzione di elettricità da fonti rinnovabili. È anche presidente di Waste Italia, l’azienda che opera nel settore della gestione dei rifiuti, nata dall’acquisizione, nel 2000, della divisione italiana del colosso statunitense Waste Management». Eppure anche a Pietro Colucci, in passato, è capitato di frequentare cattive compagnie. Nel luglio del 2008 il pentito di ecomafia Gaetano Vassallo, che per anni ha gestito il traffico di rifiuti per conto del clan Bidognetti, racconta agli inquirenti di aver frequentato i cugini Pietro e Francesco Colucci nel periodo d’oro del traffico di rifiuti tossici nelle discariche di Giugliano: «Ricordo che i germani Pietro e Franco Colucci unitamente al loro cugino Francesco Colucci della Cogest utilizzavano la cocaina, spesso l’abbiamo tirata insieme nei loro uffici». E ancora, Vassallo ricorda che nelle discariche di Giugliano «la ditta Colucci Appalti s.p.a. ha scaricato negli anni 1988-1992, rifiuti speciali e urbani» insieme alla Ecogest di Francesco Colucci. Dichiarazioni tutte da verificare, ovviamente. Anche se Vassallo è ritenuto dagli inquirenti una delle principali fonti di informazioni sugli affari legati ai rifiuti negli anni Novanta. In quegli anni, d’altronde, era difficile non avere a che fare con la criminalità. Le società dei Colucci erano taglieggiate dagli uomini del clan La Torre. Per un periodo pagarono «una tangente», poi decisero di denunciare tutto, contribuendo con la loro testimonianza a 12 condanne, commutate nel 2010 dalla Procura di Santa Maria Capua Vetere. In quegli anni i Colucci vincevano gli appalti per la raccolta dei rifiuti a Napoli insieme alla famiglia La Marca, di Ottaviano.
L’EMERGENZA DI VENT’ANNI FA
Anno 1990. Napoli è invasa dai sacchetti di immondizia e il Comune sventola bandiera bianca. Saranno i privati a gestire la raccolta dei rifiuti, un affare da 350 miliardi di lire. Tra le ditte che iniziano la raccolta a Napoli c’è la Nuova Spra Ambiente, controllata fino al 1997 per il 49 per cento da membri della famiglia La Marca di Ottaviano. Nella compagine societaria figura Domenico La Marca, tra i titolari della discarica di Pianura che in quegli anni ingurgitò circa 40 milioni di metri cubi di rifiuti indifferenziati e scorie tossiche provenienti dal Nord (fatti su cui indaga per disastro ambientale il pm Stefania Buda). L’altro 51 per cento della Nuova Spra è controllato dalla Ercole Marelli dei cugini Pietro e Francesco Colucci. Nel 2000 il Comune di Napoli revoca alla società l’appalto per la raccolta dei rifiuti e, tra le proteste di Alleanza nazionale (che all’epoca, riceveva dai Colucci cospicui finanziamenti), e ricorsi al Tar, viene emanato un nuovo bando di gara per affidare la pulizia dei quartieri gestiti dalla Spra. Ma nessuno si presenta nonostante il valore cospicuo dell’appalto. «Ancora una volta una gara va deserta – commentava nel 2000 l’assessore alla nettezza urbana Massimo Paolucci – ma siamo in grado di non sottostare a tranelli». Alcuni anni dopo la società Nuova Spra, controllata dai Colucci attraverso la Ercole Marelli, verrà colpita da interdittiva antimafia per collegamenti con il clan Fabbrocino. Nel reticolo di società che negli anni ‘90 si occupavano di raccolta e gestione dei rifiuti in Italia è difficile orientarsi: ci provò nel 2000 la Commissione parlamentare d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti presieduta da Massimo Scalia, individuando una sorta di «oligopolio tendente al monopolio» gestito da alcune famiglie: Cerroni, La Marca, Di Francia, Pisante, Fabiani e Colucci. Uomini che, a distanza di anni, continuano a condividere gli affari.
QUEI NOLI AI CASALESI
«Inadempimenti coperti da una serie di false prospettazioni della realtà del servizio espletato»; una «specifica strategia sociale e negoziale che costringeva il Comune a rispondere a interventi costante- mente emergenziali, con ricorsi a noli e subappalti». Così scrive nel febbraio 2011 il gip Tiziana Coccoluto, rispondendo positivamente alla richiesta del pm Giuseppe Miliano di mettere sotto sequestro le quote della Terracina Ambiente, società controllata dal gruppo Unendo della famiglia Colucci. Di Latina gli imprenditori dei rifiuti volevano fare un proprio feudo. Controllo diretto delle società di smaltimento dei rifiuti, conquistate a Latina e Terracina grazie ai buoni rapporti con la politica locale, quella degli ex An (i due ex sindaci delle cittadine Antonio Zaccheo e Stefano Nardi erano d’altronde cognati). Gestione di una grande discarica, quella di Borgo Montello (dove si sospetta la presenza di numerosi fusti tossici provenienti dalla nave dei veleni Zanoobia) insieme ai Cerroni (proprietari della megadiscarica romana di Malagrotta), e a Giuseppe Grossi, l’imprenditore delle bonifiche condannato per la vicenda di Santa Giulia a Milano. E poi l’ingresso con una piccola quota nell’affare di Acqualatina insieme alla multinazionale francese Veolia e al vecchio socio Ottavio Pisante, i cui rapporti coi Colucci sono fotografati già nel 2000 dalla commissione Scalia. Obiettivo: espandersi in tutta la provincia. Finisce male. Ambedue le società di rifiuti sono sotto indagine da parte dei magistrati. Le quote della Terracina ambiente vengono sequestrate e la società finisce in amministrazione controllata. A Latina il nuovo sindaco Giovanni Di Giorgi ha deciso di riprendere sotto il suo controllo la gestione della Tia, la tassa sui rifiuti. «Abbiamo tagliato di 2,6 milioni di euro i compensi alla società, vogliamo modificare il bilancio, riprendere sotto controllo il conferimento dei rifiuti in discarica, far partire la raccolta porta a porta», annuncia il primo cittadino a left. «Altrimenti – minaccia – siamo pronti a rimettere in gara il servizio». L’amministratore delegato della società, indicato dal socio privato, cioè dalla Unendo, è Valerio Bertucelli, ex amministratore anche di Terracina ambiente, attualmente indagato per truffa. Toscano, vicino al ministro Matteoli, di sicura fede aennina, Bertucelli gestiva fino al 2007 per conto dei Colucci anche la Ersu di Viareggio (per la sua amministrazione è stato accusato di peculato). Secondo le inchieste di Pierfederico Pernarella di Latina Oggi i Colucci, per espandersi in provincia, avrebbero acquisito il controllo della Terracina ambiente a un prezzo troppo basso: per poi rivalersi verso il Comune al fine di colmare i buchi finanziari e le carenze nel servizio. Sotto le lenti dei pm di Latina è finita anche l’assegnazione di subappalti a imprese poco chiare: «Tra i soggetti beneficiari di tali affidamenti – è scritto nell’ordinanza di sequestro delle quote della Terracina ambiente – compaiono imprese e imprenditori da tempo privi dei certificati antimafia e già interessati da provvedimenti di diverse autorità giudiziarie». In particolare la Terracina ambiente, secondo le indagini condotte dai carabinieri, avrebbero noleggiato 5 autocompattatori sin dal 2007 da una società di nome Green Line. L’impresa, di proprietà di Pietro Natale e Annamaria Cecori, entrambi residenti a Casal di Principe (Caserta) è stata sequestrata dalla Procura di Napoli nel luglio del 2010. I due amministratori sono arrestati nell’ambito dell’inchiesta Normandia, accusati di essere prestanome di Nicola Ferrario, ex consigliere regionale dell’Udeur, finito anch’esso in manette perché affiliato al clan dei Casalesi, in particolare ai boss Francesco e Nicola Schiavone e Antonio Iovene. L’inceneritore che piaceva alla mafia Una torta da sei miliardi di euro per 4 impianti di termovalorizzazione, affidati ai privati nel 2002 con una gara d’appalto indetta in pieno agosto. La firma in calce è quella dell’ex governatore siciliano Totò Cuffaro, oggi in carcere a Rebibbia per favoreggiamento alla mafia. E la sua fretta di assegnare gli appalti era tale da non aver neppure il tempo di controllare i certificati antimafia delle imprese partecipanti. Tra i 4 vincitori (tutti accomunati da evidenti collegamenti societari) c’è un’Ati dal nome SicilPower a cui è assegnata la costruzione e gestione dell’inceneritore che dovrà sorgere nella provincia di Catania. La società è controllata per l’84 per cento dalla Daneco dei Colucci, insieme a due soci siciliani: il primo è l’Altecoen, azienda che, secondo la Commissione parlamentare sul ciclo dei rifiuti, viene «sponsorizzata da Nitto Santapaola», capomafia della Sicilia orientale e finisce in alcune inchieste della magistratura relative alla gestione del ciclo dei rifiuti di Messina. L’Altecoen, dopo il ritiro del certificato antimafia disposto dalla prefettura di Enna nel 2005, esce dalla Sicilpower. Ma non si tratta di un grave danno, secondo una relazione della Corte dei Conti datata 2005: «Con la cessione delle proprie partecipazioni (l’Altecoen, ndr) ha lucrato sugli effetti positivi dell’aggiudicazione delle commesse pubbliche». Il secondo socio di Daneco in Sicilpower è la Db Group, con 1,2 milioni di euro di quote su 7 milioni di capitale. Azioni acquisite senza sborsare un euro. La Db Group dell’imprenditore Alessandro Di Bella, ritenuto vicino al politico locale del Pdl Pino Firrarello, acquista le sue quote cedendo alla Sicilpower un terreno a Paternò (Catania) in contrada Canizzola. Proprio quello su cui, secondo i progetti della SicilPower, dovrà sorgere l’impianto. Sul terreno, grazie a due autorizzazioni regionali, Di Bella smaltisce tonnellate di scarti tossici provenienti dagli impianti petrolchimici siciliani. A modo suo, però. Secondo le denunce dei cittadini della zona, corredate da foto e video, Di Bella lascia en plein air i big bag, i sacchi bianchi contenti pericolosi scarti industriali. Secondo le memorie consegnate alla Procura della Repubblica di Palermo dal governatore siciliano Raffaele Lombardo, Di Bella mischia i rifiuti all’argilla, di cui è ricca la zona (siamo a pochi passi dal fiume Simeto, un sito d’interesse paesaggistico comunitario) e li invia in un suo impianto, poco lontano, a Contrada Contrasto. Qui l’argilla “tossica” viene utilizzata per la produzione di mattoni. Contadini, ambientalisti, associazioni riempiono di missive la Procura di Catania per bloccare lo scempio. I magistrati intervengono sequestrando il sito il 18 marzo 2008. Di Bella, però, se la cava con poco: una multa e la promessa di bonificare la zona inquinata. L’inceneritore di Paternò stava per nascere proprio sopra una discarica illegale di rifiuti tossici. Ma non è tutto: l’appalto per il movimento terra, propedeutico all’edificazione dell’impianto, era stato assegnato all’impresa Fratelli Basilotta spa. Il suo proprietario, Vincenzo Basilotta, è appena stato condannato in appello a 5 anni di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa. Uno dei più influenti consulenti tecnici della Sicilpower, infine, è Giovanni Barbagallo, geologo, nato a Catania nel 1949. Uomo fidato del governatore siciliano Raffaele Lombardo, dirigente dell’Mpa, Barbagallo è accusato di estorsione e viene arrestato in seguito all’inchiesta Iblis della Procura catanese, la stessa che ha messo in difficoltà il governatore siciliano per i suoi presunti rapporti con la malavita. In un interrogatorio reso ai magistrati catanesi – anticipato dal giornalista Antonio Condorelli su S Catania – Barbagallo ricorda di essere stato contattato da Lombardo per convincere i tecnici della Daneco a spostare l’impianto da Paternò alla zona industriale di Catania. «Ne parlai con un ingegnere della Daneco, tale Filipponi». A meno di una omonimia si tratta di Bernardino Filipponi, amministratore delegato della Daneco impianti, già sotto inchiesta a Milano e Benevento. Lo sbarco della Daneco in Sicilia fallisce: la giunta Lombardo blocca l’affare degli inceneritori. Ma rimane qualche strascico. La vicenda è da oltre un anno sotto il setaccio della Procura di Palermo, che ha ricevuto anche un fascicolo aperto a Catania sull’aumento di valore dei terreni di Bella a contrada Cannizzola.
CARTE FALSE
A leggere le carte sarebbe dovuta essere una discarica modello. Tutto in regola, permessi, relazioni idrogeologiche, vincoli. Solo che le carte non rispecchiavano la realtà. È quanto sostiene la Procura di Lamezia Terme sulla discarica di Pianopoli, in Calabria, autorizzata nel 2004 grazie a un’ordinanza (n. 2873) dell’allora commissario per l’emergenza rifiuti in Calabria Giuseppe Chiaravalloti, ex presidente della Regione. A ricevere il permesso per realizzare e gestire l’invaso per rifiuti speciali non pericolosi è la società Eco Inerti di Vercelli, che trova tutte le porte aperte: l’area ha un vincolo idrogeologico che viene superato con un nulla-osta del Corpo forestale, concesso in sole 48 ore di burocrazia efficientissima. Così come è superata la relazione idrogeologica del 1987, allegata al Piano regolatore del Comune, che descriveva la zona talmente instabile da «sconsigliare l’edificazione». Poco dopo aver ricevuto l’autorizzazione per l’inizio dei lavori, il 15 gennaio del 2005, la Eco Inerti viene ceduta alla Ile srl, controllata dalla Daneco Italimpianti. Il valore dell’impresa schizza da 10mila a 3 milioni di euro. Ma cittadini, pochi consiglieri comunali e numerose interrogazioni parlamentari mettono sotto accusa la discarica: il progetto della Eco Inerti è ben diverso dalla realtà. La discarica è circondata dall’acqua: oltre alle falde sotterranee, lì vicino scorre il torrente Grotte, il cui letto è usato fino a ottobre 2010 come unica via d’accesso. Al centro dell’area c’era addirittura un pozzo per irrigare i campi. La magistratura apre un’inchiesta e nel settembre 2010 il gup rinvia a giudizio amministratori della Eco Inerti e progettisti. Secondo i pm avrebbero tratto in inganno il Comune di Pianopoli e il commissario per l’emergenza «prospettando una realtà dei luoghi diversa da quella esistente», sostenendo, cioè, «che il terreno non era interessato da movimenti franosi, che sullo stesso non esistevano falde acquifere, che il terreno avesse una permeabilità superiore a quella effettivamente esistente e che sullo stesso non esistevano coltivazioni agricole». Nonostante i problemi con la giustizia, nel 2008 la società riceve l’autorizzazione regionale per l’esercizio della discarica e chiede un ulteriore ampliamento, fino a 1,3 milioni di metri cubi di capacità. A novembre 2010, con la discarica aperta ai rifiuti urbani di 50 Comuni, arrivano le piogge e ritorna la magistratura: durante un sopralluogo i Noe e l’Arpacal scoprono, tra varie irregolarità, uno scarico abusivo di acqua mista a percolato, che rischia di inquinare il fiume Amato. Scatta il sequestro, richiesto dal pm lametino Salvatore Vitello. Alla fine di novembre la discarica è riconsegnata alla Daneco a cui viene ordinato di rimuovere il tubo e mettere tutto in regola. Ma per la Daneco la tubatura era antecedente alla costruzione della discarica ed era stata chiusa prima del luglio 2010. Solo accidentalmente le forti piogge l’avevano riaperta. Una vicenda molto simile a quella che aveva spinto i pm di Benevento ad aprire un’inchiesta su un’altra discarica della Daneco, quella di Sant’Arcagelo Trimonte.
La borghesia dei rifiuti:
il volto nascosto della DANECO
Parte prima
Hanno vinto un appalto da 300 milioni, per l’inceneritore di Salerno. Ma sono indagati dalla Lombardia alla Sicilia per reati ambientali, subappalti sospetti, truffa, corruzione. Radiografia del gruppo Unendo-Daneco, di proprietà dei fratelli Colucci. Ecco la prima puntata
di Manuele Bonaccorsi e Anna fava
Trecento milioni di euro di investimenti e circa mezzo miliardo di profitti sicuri per costruire e gestire, per vent’anni, un inceneritore nella città di Salerno. A vincere la gara d’appalto indetta dalla Provincia di Salerno è una delle aziende leader nel settore dei rifiuti: la Daneco, società della holding Unendo, un colosso da oltre 200 milioni di euro di fatturato e oltre 3mila clienti tra le maggiori industrie internazionali, riconducibile alla proprietà dei fratelli Colucci, Pietro e Francesco. Originari di Napoli, sui rifiuti hanno costruito un impero arrivando al punto di acquisire la filiale italiana della Waste management, la multinazionale statunitense dello smaltimento dei rifiuti. La sede della holding è a Milano, a due passi da Piazza Affari. Gli interessi spaziano dalla raccolta dei rifiuti al solare, passando per la gestione di impianti industriali di trattamento e discariche per scarti industriali. Gli “emigranti di successo” ne hanno fatta di carriera, entrando a pieno titolo in quel «ristretto giro di operatori» del ciclo dei rifiuti. Nel 2000 le società della famiglia Colucci vennero analizzate in un’inchiesta parlamentare condotta dalla Commissione Scalia, che giunse a conclusioni preoccupanti: «Se quello descritto non è ancora un cartello – si legge nella relazione finale – è certamente un sistema che presenta elementi rilevanti di distorsione del mercato, con ricadute negative sullo stesso funzionamento delle regole della libera concorrenza». La relazione terminava con l’annuncio di ulteriori approfondimenti, ma finora l’inchiesta non ha avuto seguito. Sono passati 10 anni, e i fratelli Colucci, giunti al culmine della loro ascesa, hanno recentemente deciso di dividere l’impero. A Pietro, fino a pochi mesi fa presidente di Assoambiente (Confindustria), la gestione di Kinexia (energie rinnovabili) e Waste (rifiuti speciali); a Francesco la capogruppo Unendo e la preziosa controllata Daneco. Ma i Colucci sono in cima alle classifiche non solo dal punto di vista economico. Anche il versante giudiziario è degno di nota: amministratori e dirigenti delle imprese della holding sono sotto indagine a Milano, per corruzione e truffa ai danni dello Stato nella bonifica dell’area ex Sisas di Pioltello; a Latina – dove il gruppo è socio di due aziende locali, Terracina Ambiente e Latina Ambiente – per frode nelle pubbliche forniture, con l’ombra di subappalti assegnati a prestanome dei Casalesi; a Benevento Daneco è indagata per disastro ambientale causato dallo sversamento nelle falde acquifere di migliaia di litri di percolato fuoriusciti dalla discarica gestita a Sant’Arcangelo Trimonte; in Calabria, la società Eco Inerti, controllata da Daneco, è sotto processo per aver ottenuto le autorizzazioni per realizzare una discarica per rifiuti speciali in un’area di alto valore paesaggistico falsificando i documenti tecnici sulla conformazione del territorio; in Sicilia le indagini della procura di Palermo sull’affare dei quattro termovalorizzatori voluti dall’ex governatore Totò Cuffaro, condannato per mafia, riguardano anche la costruzione di un impianto a Paternò (Catania), affidato alla Sicil Power, una controllata della Daneco. Tra i soci del colosso dei rifiuti nell’avventura siciliana c’era l’Altecoen, impresa ennese legata al clan dei Santapaola. E non solo: tra consulenti e appaltatori si ritrovano numerosi indagati o condannati per reati ambientali e per mafia. Un curriculum di tutto rispetto per la società che si è aggiudicata l’ennesimo grande appalto dell’infinita emergenza rifiuti. D’altronde, in Italia è noto, quando c’è l’emergenza cominciano i grandi affari.
INCENERIRE, UN BUSINESS SICURO
Un investimento sicuro, quello del termovalorizzatore di Salerno, grazie a due cavilli contenuti nel bando di gara: da un lato la certezza di intascare per otto anni i contributi Cip6 per le energie rinnovabili, versati da tutti i cittadini in bolletta e cancellati nell’intero Paese fuorché per la Campania. Dall’altro la garanzia sottoscritta dalla Provincia di Salerno di poter bruciare, per 18 anni, 300mila tonnellate all’anno di rifiuti. Una stima sovradimensionata in una delle aree più virtuose: nella provincia si producono non più di 500mila tonnellate di monnezza, ma la città di Salerno raggiunge il 70 per cento di differenziata, e nella zona sono molti i Comuni “ricicloni”. A conti fatti, per costruire l’impianto Daneco spenderà circa 300 milioni di euro, ma potrà intascarne oltre il doppio tra conferimento dei rifiuti (la provincia pagherà circa 90 euro per tonnellata portata al forno) e vendita dell’energia (col Cip6 ogni Mw prodotto vale circa 220 euro, contro i 70 euro di un Mw normale). In associazione temporanea di impresa (Ati) con Daneco, che a Salerno gestisce già un impianto di compostaggio anaerobico da 30mila tonnellate, si è presentata la Rcm dei fratelli Rainone, grossa impresa edile salernitana, vicina al sindaco De Luca ma anche al consigliere regionale Pdl Alberico Gambino (condannato in secondo grado per peculato e cognato di Elio Rainone) che gestirà la costruzione dell’impianto. La vittoria è arrivata sulla base della valutazione del progetto tecnico: per quanto riguarda offerta economica e durata della concessione il concorrente del duo Daneco – Rcm, la De Vizia transfer, aveva presentato una proposta più vantaggiosa. Il sindaco De Luca, ex commissario straordinario per l’edificazione dello stesso termovalorizzatore – compito poi “rubatogli” da Cirielli – ora minaccia: «L’inceneritore è inutile, lo impediremo, porteremo le carte in Procura». Per la Daneco, capofila dell’appalto, sarebbe l’ottava inchiesta aperta per i suoi affari in giro per l’Italia.
IL NEROFUMO
L’ultima in ordine di tempo risale a poche settimane fa: i pm Paola Pirotta e Paolo Filipponi, della Procura di Milano, indagano su una presunta tangente da 700mila euro che sarebbe stata versata dall’amministratore delegato della Daneco impianti, Bernardino Filipponi, a uno degli uomini chiave del ministero dell’Ambiente, Luigi Pelaggi, capo della segreteria tecnica di Stefania Prestigiacomo e commissario straordinario per una bonifica milionaria, quella della Sisas di Pioltello. Ed è proprio la Daneco a vincere la gara “drogata”, indetta in deroga al codice degli appalti pubblici, per liberare quest’area del milanese, occupata per 50 anni da uno stabilimento chimico, da qualcosa come 280mila tonnellate di rifiuti, di cui almeno 30mila pericolosi. Dalle indagini, condotte dai Noe di Sergio De Caprio, il capitano «Ultimo», il denaro sarebbe servito a oliare alcuni provvedimenti emessi dal commissario in violazione delle norme ambientali, a tutto vantaggio dei profitti di Daneco. Una vicenda dai contorni oscuri, dove si intravedono carichi di rifiuti tossici che viaggiano nel Mediterraneo e container colmi di sostanze pericolose che spariscono nel nulla o cambiano codice. Ma conviene andare per ordine. La Daneco subentra al lavoro di bonifica nel settembre 2010. Sostituisce la Tr2, azienda guidata da Giuseppe Grossi, imprenditore milanese, vicino a Cl, finito sotto inchiesta (ha recentemente patteggiato la pena) per la mancata bonifica della zona di Santa Giulia, dove un intero quartiere è nato sopra una montagna di amianto e sostanze chimiche pericolose. I tempi sono stretti: il governo ha dichiarato lo stato d’emergenza, nominando Pelaggi commissario straordinario, perché sulla bonifica della Sisas di Pioltello pende una procedura di infrazione dell’Ue: si rischia una multa milionaria. La gara, indetta sulla base di un «progetto di intervento» redatto da Claudio Tedesi, un quotato ingegnere ambientale indagato insieme a Grossi per la vicenda di Santa Giulia, viene assegnata alla Daneco per 35,8 milioni, contro i 49 segnalati nel documento tecnico. Il progetto prevede che l’azienda tratti in loco i rifiuti pericolosi, per spedirli in discariche a norma, all’estero. Tra i siti disponibili, oltre ad alcuni impianti tedeschi e italiani, viene scelta la discarica di Nerva, in Andalusia, gestita dalla società Befesa. Un impianto molto chiacchierato in Spagna: secondo un esposto presentato dal partito spagnolo Izquierda Unida (Iu), Befesa avrebbe falsificato i documenti dei rifiuti in modo da stoccare in discarica sostanze pericolose non trattate, alcune delle quali provenienti dalla Riccobono di Parma. La cattiva gestione dei rifiuti, secondo le interrogazioni parlamentari e gli esposti alla magistratura presentati da Pedro Jimenez, segretario di Iu della Huelva, avrebbero inquinato gravemente il fiume Rio Tinto. La Daneco riceve il permesso dalla giunta dell’Andalusia di esportare in Spagna, alla discarica di Nerva, rifiuti provenienti da terre di bonifica di Pioltello: 60mila tonnellate di rifiuti non tossici (codice Cer 191302) e 25mila tonnellate di rifiuti tossici (Cer 191301*, dove l’asterisco, nella codificazione europea, segnala la pericolosità del rifiuto). Eppure la Daneco, in un documento ufficiale, dichiara di aver inviato a Nerva solo 2.222 tonnellate di rifiuti non pericolosi, e 24.965 di materiali pericolosi (codice 191301*). Fin qui nulla di strano, la Daneco sembrerebbe aver usufruito solo parzialmente del permesso concesso dall’Andalusia. Ma pare che i rifiuti dichiarati da Daneco non siano mai arrivati nel porto di Siviglia, dove erano attesi. Il 23 maggio 2011 l’autorità portuale della città spagnola elenca tutte le navi italiane attraccate al molo della città andalusa tra l’inizio del 2008 e l’aprile del 2011, quando le operazioni di bonifica risultano già concluse. Nel porto di Siviglia, provenienti da Genova, arrivano in 8 diverse navi 22.600 tonnellate di fuliggine pericolosa 061305*, e di nerofumo provenienti da Vado Ligure: di rifiuti provenienti da terre di bonifica, quelle citate nei documenti di Daneco, neanche l’ombra. Eppure la quantità di fuliggine pericolosa giunta a Nerva corrisponde perfettamente a quella che, secondo la relazione di Tedesi, era presente nella zona industriale di Pioltello: 23mila tonnellate di «rifiuti assimilabili a nerofumo pericoloso», codice 061305*. Nella foto che pubblichiamo in questa pagina, scattate dai militanti di Greenpeace, si vede uno dei camion che trasportano il nerofumo proveniente da Pioltello scaricare del materiale senza trattamento, nella discarica di Nerva. Nulla di irregolare, secondo la Daneco, che in un documento del 6 maggio 2011 annuncia candidamente: «Non è stato effettuato alcun tipo di trattamento di inertizzazione presso il sito di Pioltello». Nonostante il Progetto d’intervento a base del bando di gare prevedesse l’uso di trituratori e miscelatori per rendere meno pericoloso il trasporto e lo stoccaggio dei materiali. Per ora, sulla strana vicenda di Pioltello, ci sono solo ipotesi. Secondo le voci che circolano pare che una parte dei rifiuti tossici sia finita persino nella Campania, in piena emergenza “monnezza” (anche se tale viaggio non appare nei documenti ufficiali di Daneco). Molti dubbi, a sentire Greenpeace – che sulla vicenda ha preparato un documento dal titolo emblematico, “Una sporca storia” – provengono anche dalla caratterizzazione dei rifiuti, cioè dall’analisi dei materiali presenti in discarica. A portare in laboratorio i campioni di terreno inquinato, infatti, sono stati sempre tecnici della parte privata. Mentre l’Arpa, l’Agenzia regionale di protezione ambientale, avrebbe apposto il proprio sigillo solo nelle conferenze di servizio utili ad accelerare l’iter dei lavori. Senza realizzare nessuna indagine “indipendente” sul campo. Un’ipotesi smentita dal sindaco di Pioltello Antonio Concas (Pd): «L’Arpa ha piantato qui le tende. Secondo me è tutto in regola. Pelaggi l’ho incontrato da poco in Regione, dice che ha fiducia nella magistratura e tutto sarà chiarito». I risultati delle indagini del Noe chiariranno molte cose. Intanto l’emergenza Pioltello, la cui scadenza era inizialmente fissata ad aprile del 2011, è stata spostata al 31 ottobre del 2011. Manca la bonifica delle falde e dell’area industriale. A gestire gli ultimi lavori, sempre la Daneco: i tempi sono troppo stretti per indire una nuova gara. D’altronde la Daneco coi commissari straordinari è sempre andata d’accordo.
LA SPARTIZIONE
Nella Campania dell’emergenza rifiuti la Daneco ha solo l’imbarazzo della scelta: gli appalti si sprecano. Sono tanti e così ricchi che l’impresa dei Colucci può concedersi il lusso di rinunciare dalla sera alla mattina a un affare da oltre 70 milioni di euro per la realizzazione e le gestione della contrastata discarica di Chiaiano, nell’hinterland di Napoli. Il commissariato straordinario che gestisce la gara d’appalto, indetta nell’estate del 2008, il sottosegretario all’emergenza rifiuti Guido Bertolaso, riceve cinque offerte: la Pescatore di Avellino inizialmente si aggiudica la gara con un ribasso del 36 per cento. La Daneco arriva al secondo posto, seguita dalla napoletana Ibi Italimpianti e dall’emiliana Cmc. La Pescatore però viene estromessa ufficialmente per problemi economici. Anche se in quel periodo agli investigatori è noto che la società potrebbe da un momento all’altro ricevere un’interdittiva antimafia. Ad aggiudicarsi la commessa, alla fine, sembra essere proprio la Daneco. Che però alle 7 del mattino, all’ultimo momento utile, spedisce un fax di rinuncia al Commissariato, lasciando che a vincere l’appalto sia il gruppo Ibi Italimpianti-Edilcar, che ha già realizzato la discarica di Savignano Irpino, nell’avellinese. Le due società della cordata vengono però colpite nel marzo 2011 da un’interdittiva antimafia: la Ibi, infatti, è indagata dalla Procura di Palermo per traffico illecito di rifiuti e per aver svolto dei lavori a Palermo, nella discarica di Bellolampo, subappaltandoli a una società vicina alla mafia palermitana. Secondo il pentito di camorra Gaetano Vassallo, entrambe le società sono legate ai clan Mallardo e Zagaria. Ma per quale motivo Daneco rinuncia all’appalto? La motivazione ufficiale dell’azienda è a dir poco curiosa: Daneco non vuole associare il proprio nome al contesto di Chiaiano, dove migliaia di cittadini si oppongono all’apertura dell’invaso, per non rovinare le proprie quotazioni in Borsa. Ma l’ipotesi non convince il comandante del Noe di Napoli Giovanni Caturano, che durante un’audizione in Commissione parlamentare sui rifiuti riferisce la sua analisi sull’appalto anomalo di Chiaiano: «Apparentemente sembrava una sorta di divisione di interessi». Persa Chiaiano, la Daneco si aggiudica in seguito i bandi salernitani per la costruzione dell’impianto di compostaggio anaerobico e del mega inceneritore. E continua a gestire, in Campania, l’enorme discarica di Sant’Arcangelo Trimonte.
FIUMI DI PERCOLATO
Sono indefinibili le quantità di percolato che – secondo la consulenza tecnica consegnate al pm della procura di Benevento Antonio Clemente dagli esperti Paolo Rabitti e Gian Paolo Sommaruga – si versa nelle falde acquifere che scorrono nel sottosuolo della discarica di Sant’Arcangelo Trimonte, in provincia di Benevento, gestita dalla Daneco. La discarica, attualmente messa parzialmente sotto sequestro dalla magistratura, si trova sulla cima di una collina, in una zona evidentemente franosa: le zolle di terra rovinano verso valle, le strade spaccate si sollevano e gli alberi, le case e i piloni sfidano il senso di gravità inventando nuove geometrie. Una discarica che sta franando a valle, fino al torrente Calore, insieme a tutto il contenuto velenoso. Tanto da costringere i gestori a urgenti opere di consolidamento, per evitare che la valle sia sommersa da una pioggia di monnezza. Il posto peggiore per edificare una discarica. Eppure il 9 maggio 2007, durante un periodo di ciclica emergenza rifiuti in Campania, l’ex presidente della Provincia di Benevento, Carmine Nardone, indica proprio quest’area in località Nocecchie al Commissariato di governo, alla cui testa c’è allora Gianni De Gennaro, impegnato nella disperata ricerca di un sito per una discarica. «Da un primo studio effettuato – scrive Nardone – sembra che sussistano tutte le condizioni per l’idoneità del sito». Dopo due giorni Contrada Nocecchie è inserita nell’elenco dei siti destinati a discarica definiti da un decreto del governo (che verrà convertito nella legge 87 del 2007), ed è riconfermato a pieni voti nella legge speciale 123 del 2008. Guido Bertolaso la definirà: «una discarica modello». Come prevedibile, coi lavori iniziano i primi dissesti: lunedì 11 agosto 2008, in piena estate, una vasca in costruzione inizia a franare a causa del peso dei rifiuti. Il 25 ottobre 2010 il collaudatore statico dell’impianto, l’ingegner Ciro Faella, si rifiuta di apporre la sua firma sul documento di collaudo del quarto lotto dell’invaso. Seguono altre frane e anche uno dei piloni dell’elettrodotto che attraversa pericolosamente la discarica, crolla. La Daneco è costretta ad alzare palificate di cemento armato piantate nel suolo per 40 metri nel tentativo di consolidare l’impianto: varianti in corso d’opera con nuovi “imprevedibili” costi aggiuntivi. I comitati presentano numerose denunce e, finalmente, il 18 marzo 2011, arriva il sequestro: la Procura di Benevento ferma l’impianto per «evitare nuovi e maggiori danni per l’ambiente», e sta svolgendo in queste settimane accertamenti sui subappalti assegnati per la costruzione della discarica. Sotto inchiesta finisce ancora una volta Bernardino Filipponi, il manager messo dai Colucci a capo dell’azienda, insieme a Marco Leone, responsabile tecnico della gestione della discarica. L’accusa, formulata dal pm Antonio Clemente, è di aver provocato «un pericolo di frana e di disastro ambientale»: dalla discarica franata fuoriescono migliaia di litri di percolato che finiscono nei terreni circostanti. Un percolato particolarmente tossico, data la presenza di rifiuti pericolosi – tra cui olii minerali e diossine superiori ai parametri – che secondo la Procura potrebbero aver raggiunto il fiume Calore. Intorno alla discarica, come si vede nelle foto pubblicate in queste pagine, si scorgono strane tubazioni fuoriuscire da una vasca in cemento: dai tubi si riversa un liquido dallo sgradevole odore, che si infiltra in una vasca scavata nel terreno in pendenza, attraversa la strada per finire in un’altra profonda vasca, per poi scomparire. Alcuni metri al di sotto, dal sottobosco fuoriesce un rivolo di percolato che s’incanala in un tubo di cemento che lo convoglia in un “laghetto” che declina verso valle. Verso il fiume Calore, che trasporterà il suo carico di veleni fino al mare.
Left n. 28 - luglio 2011
La borghesia dei rifiuti: il volto nascosto della DANECO
seconda parte
di Manuele Bonaccorsi e Anna Fava
Milioni di euro di appalti in tutta Italia (l’ultimo pari a quasi 300 milioni di euro per il termovalorizzatore di Salerno). E numerose società del gruppo Daneco-Unendo della famiglia Colucci finite sotto inchiesta: l’ultima indagine, scoppiata proprio nelle scorse settimane, riguarda la bonifica della Sisas di Pioltello, in provincia di Milano. Eppure, fino a marzo del 2011, Pietro Colucci occupava la poltrona di presidente dell’associazione delle imprese ambientali di Confindustria. «Sono presidente di Assoambiente – dichiara in un’intervista nel novembre 2010 – e mi vanto di essere uno che ha lavorato in un settore complicato come quello dei rifiuti senza essere stato mai condannato. Mai. Anche se sono stato indagato tante volte». Un imprenditore talmente integro da presentare in tutt’Italia il suo nuovo libro Vento a favore, scritto con l’ex ministro dell’Ambiente Edo Ronchi, alla presenza di politici del calibro di Gianni Alemanno ed Enrico Letta. Nel testo l’ex presidente di Assoambiente, viene descritto come un uomo dal «riconosciuto “pedigree” imprenditoriale per l’intensa attività svolta nel settore della gestione dei rifiuti e della produzione di energia da fonti rinnovabili. A soli 22 anni era già alla guida dell’azienda di famiglia. Oggi è presidente e amministratore delegato di Kinexia, una società quotata in Borsa, attiva nel settore della produzione di elettricità da fonti rinnovabili. È anche presidente di Waste Italia, l’azienda che opera nel settore della gestione dei rifiuti, nata dall’acquisizione, nel 2000, della divisione italiana del colosso statunitense Waste Management». Eppure anche a Pietro Colucci, in passato, è capitato di frequentare cattive compagnie. Nel luglio del 2008 il pentito di ecomafia Gaetano Vassallo, che per anni ha gestito il traffico di rifiuti per conto del clan Bidognetti, racconta agli inquirenti di aver frequentato i cugini Pietro e Francesco Colucci nel periodo d’oro del traffico di rifiuti tossici nelle discariche di Giugliano: «Ricordo che i germani Pietro e Franco Colucci unitamente al loro cugino Francesco Colucci della Cogest utilizzavano la cocaina, spesso l’abbiamo tirata insieme nei loro uffici». E ancora, Vassallo ricorda che nelle discariche di Giugliano «la ditta Colucci Appalti s.p.a. ha scaricato negli anni 1988-1992, rifiuti speciali e urbani» insieme alla Ecogest di Francesco Colucci. Dichiarazioni tutte da verificare, ovviamente. Anche se Vassallo è ritenuto dagli inquirenti una delle principali fonti di informazioni sugli affari legati ai rifiuti negli anni Novanta. In quegli anni, d’altronde, era difficile non avere a che fare con la criminalità. Le società dei Colucci erano taglieggiate dagli uomini del clan La Torre. Per un periodo pagarono «una tangente», poi decisero di denunciare tutto, contribuendo con la loro testimonianza a 12 condanne, commutate nel 2010 dalla Procura di Santa Maria Capua Vetere. In quegli anni i Colucci vincevano gli appalti per la raccolta dei rifiuti a Napoli insieme alla famiglia La Marca, di Ottaviano.
L’EMERGENZA DI VENT’ANNI FA
Anno 1990. Napoli è invasa dai sacchetti di immondizia e il Comune sventola bandiera bianca. Saranno i privati a gestire la raccolta dei rifiuti, un affare da 350 miliardi di lire. Tra le ditte che iniziano la raccolta a Napoli c’è la Nuova Spra Ambiente, controllata fino al 1997 per il 49 per cento da membri della famiglia La Marca di Ottaviano. Nella compagine societaria figura Domenico La Marca, tra i titolari della discarica di Pianura che in quegli anni ingurgitò circa 40 milioni di metri cubi di rifiuti indifferenziati e scorie tossiche provenienti dal Nord (fatti su cui indaga per disastro ambientale il pm Stefania Buda). L’altro 51 per cento della Nuova Spra è controllato dalla Ercole Marelli dei cugini Pietro e Francesco Colucci. Nel 2000 il Comune di Napoli revoca alla società l’appalto per la raccolta dei rifiuti e, tra le proteste di Alleanza nazionale (che all’epoca, riceveva dai Colucci cospicui finanziamenti), e ricorsi al Tar, viene emanato un nuovo bando di gara per affidare la pulizia dei quartieri gestiti dalla Spra. Ma nessuno si presenta nonostante il valore cospicuo dell’appalto. «Ancora una volta una gara va deserta – commentava nel 2000 l’assessore alla nettezza urbana Massimo Paolucci – ma siamo in grado di non sottostare a tranelli». Alcuni anni dopo la società Nuova Spra, controllata dai Colucci attraverso la Ercole Marelli, verrà colpita da interdittiva antimafia per collegamenti con il clan Fabbrocino. Nel reticolo di società che negli anni ‘90 si occupavano di raccolta e gestione dei rifiuti in Italia è difficile orientarsi: ci provò nel 2000 la Commissione parlamentare d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti presieduta da Massimo Scalia, individuando una sorta di «oligopolio tendente al monopolio» gestito da alcune famiglie: Cerroni, La Marca, Di Francia, Pisante, Fabiani e Colucci. Uomini che, a distanza di anni, continuano a condividere gli affari.
QUEI NOLI AI CASALESI
«Inadempimenti coperti da una serie di false prospettazioni della realtà del servizio espletato»; una «specifica strategia sociale e negoziale che costringeva il Comune a rispondere a interventi costante- mente emergenziali, con ricorsi a noli e subappalti». Così scrive nel febbraio 2011 il gip Tiziana Coccoluto, rispondendo positivamente alla richiesta del pm Giuseppe Miliano di mettere sotto sequestro le quote della Terracina Ambiente, società controllata dal gruppo Unendo della famiglia Colucci. Di Latina gli imprenditori dei rifiuti volevano fare un proprio feudo. Controllo diretto delle società di smaltimento dei rifiuti, conquistate a Latina e Terracina grazie ai buoni rapporti con la politica locale, quella degli ex An (i due ex sindaci delle cittadine Antonio Zaccheo e Stefano Nardi erano d’altronde cognati). Gestione di una grande discarica, quella di Borgo Montello (dove si sospetta la presenza di numerosi fusti tossici provenienti dalla nave dei veleni Zanoobia) insieme ai Cerroni (proprietari della megadiscarica romana di Malagrotta), e a Giuseppe Grossi, l’imprenditore delle bonifiche condannato per la vicenda di Santa Giulia a Milano. E poi l’ingresso con una piccola quota nell’affare di Acqualatina insieme alla multinazionale francese Veolia e al vecchio socio Ottavio Pisante, i cui rapporti coi Colucci sono fotografati già nel 2000 dalla commissione Scalia. Obiettivo: espandersi in tutta la provincia. Finisce male. Ambedue le società di rifiuti sono sotto indagine da parte dei magistrati. Le quote della Terracina ambiente vengono sequestrate e la società finisce in amministrazione controllata. A Latina il nuovo sindaco Giovanni Di Giorgi ha deciso di riprendere sotto il suo controllo la gestione della Tia, la tassa sui rifiuti. «Abbiamo tagliato di 2,6 milioni di euro i compensi alla società, vogliamo modificare il bilancio, riprendere sotto controllo il conferimento dei rifiuti in discarica, far partire la raccolta porta a porta», annuncia il primo cittadino a left. «Altrimenti – minaccia – siamo pronti a rimettere in gara il servizio». L’amministratore delegato della società, indicato dal socio privato, cioè dalla Unendo, è Valerio Bertucelli, ex amministratore anche di Terracina ambiente, attualmente indagato per truffa. Toscano, vicino al ministro Matteoli, di sicura fede aennina, Bertucelli gestiva fino al 2007 per conto dei Colucci anche la Ersu di Viareggio (per la sua amministrazione è stato accusato di peculato). Secondo le inchieste di Pierfederico Pernarella di Latina Oggi i Colucci, per espandersi in provincia, avrebbero acquisito il controllo della Terracina ambiente a un prezzo troppo basso: per poi rivalersi verso il Comune al fine di colmare i buchi finanziari e le carenze nel servizio. Sotto le lenti dei pm di Latina è finita anche l’assegnazione di subappalti a imprese poco chiare: «Tra i soggetti beneficiari di tali affidamenti – è scritto nell’ordinanza di sequestro delle quote della Terracina ambiente – compaiono imprese e imprenditori da tempo privi dei certificati antimafia e già interessati da provvedimenti di diverse autorità giudiziarie». In particolare la Terracina ambiente, secondo le indagini condotte dai carabinieri, avrebbero noleggiato 5 autocompattatori sin dal 2007 da una società di nome Green Line. L’impresa, di proprietà di Pietro Natale e Annamaria Cecori, entrambi residenti a Casal di Principe (Caserta) è stata sequestrata dalla Procura di Napoli nel luglio del 2010. I due amministratori sono arrestati nell’ambito dell’inchiesta Normandia, accusati di essere prestanome di Nicola Ferrario, ex consigliere regionale dell’Udeur, finito anch’esso in manette perché affiliato al clan dei Casalesi, in particolare ai boss Francesco e Nicola Schiavone e Antonio Iovene. L’inceneritore che piaceva alla mafia Una torta da sei miliardi di euro per 4 impianti di termovalorizzazione, affidati ai privati nel 2002 con una gara d’appalto indetta in pieno agosto. La firma in calce è quella dell’ex governatore siciliano Totò Cuffaro, oggi in carcere a Rebibbia per favoreggiamento alla mafia. E la sua fretta di assegnare gli appalti era tale da non aver neppure il tempo di controllare i certificati antimafia delle imprese partecipanti. Tra i 4 vincitori (tutti accomunati da evidenti collegamenti societari) c’è un’Ati dal nome SicilPower a cui è assegnata la costruzione e gestione dell’inceneritore che dovrà sorgere nella provincia di Catania. La società è controllata per l’84 per cento dalla Daneco dei Colucci, insieme a due soci siciliani: il primo è l’Altecoen, azienda che, secondo la Commissione parlamentare sul ciclo dei rifiuti, viene «sponsorizzata da Nitto Santapaola», capomafia della Sicilia orientale e finisce in alcune inchieste della magistratura relative alla gestione del ciclo dei rifiuti di Messina. L’Altecoen, dopo il ritiro del certificato antimafia disposto dalla prefettura di Enna nel 2005, esce dalla Sicilpower. Ma non si tratta di un grave danno, secondo una relazione della Corte dei Conti datata 2005: «Con la cessione delle proprie partecipazioni (l’Altecoen, ndr) ha lucrato sugli effetti positivi dell’aggiudicazione delle commesse pubbliche». Il secondo socio di Daneco in Sicilpower è la Db Group, con 1,2 milioni di euro di quote su 7 milioni di capitale. Azioni acquisite senza sborsare un euro. La Db Group dell’imprenditore Alessandro Di Bella, ritenuto vicino al politico locale del Pdl Pino Firrarello, acquista le sue quote cedendo alla Sicilpower un terreno a Paternò (Catania) in contrada Canizzola. Proprio quello su cui, secondo i progetti della SicilPower, dovrà sorgere l’impianto. Sul terreno, grazie a due autorizzazioni regionali, Di Bella smaltisce tonnellate di scarti tossici provenienti dagli impianti petrolchimici siciliani. A modo suo, però. Secondo le denunce dei cittadini della zona, corredate da foto e video, Di Bella lascia en plein air i big bag, i sacchi bianchi contenti pericolosi scarti industriali. Secondo le memorie consegnate alla Procura della Repubblica di Palermo dal governatore siciliano Raffaele Lombardo, Di Bella mischia i rifiuti all’argilla, di cui è ricca la zona (siamo a pochi passi dal fiume Simeto, un sito d’interesse paesaggistico comunitario) e li invia in un suo impianto, poco lontano, a Contrada Contrasto. Qui l’argilla “tossica” viene utilizzata per la produzione di mattoni. Contadini, ambientalisti, associazioni riempiono di missive la Procura di Catania per bloccare lo scempio. I magistrati intervengono sequestrando il sito il 18 marzo 2008. Di Bella, però, se la cava con poco: una multa e la promessa di bonificare la zona inquinata. L’inceneritore di Paternò stava per nascere proprio sopra una discarica illegale di rifiuti tossici. Ma non è tutto: l’appalto per il movimento terra, propedeutico all’edificazione dell’impianto, era stato assegnato all’impresa Fratelli Basilotta spa. Il suo proprietario, Vincenzo Basilotta, è appena stato condannato in appello a 5 anni di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa. Uno dei più influenti consulenti tecnici della Sicilpower, infine, è Giovanni Barbagallo, geologo, nato a Catania nel 1949. Uomo fidato del governatore siciliano Raffaele Lombardo, dirigente dell’Mpa, Barbagallo è accusato di estorsione e viene arrestato in seguito all’inchiesta Iblis della Procura catanese, la stessa che ha messo in difficoltà il governatore siciliano per i suoi presunti rapporti con la malavita. In un interrogatorio reso ai magistrati catanesi – anticipato dal giornalista Antonio Condorelli su S Catania – Barbagallo ricorda di essere stato contattato da Lombardo per convincere i tecnici della Daneco a spostare l’impianto da Paternò alla zona industriale di Catania. «Ne parlai con un ingegnere della Daneco, tale Filipponi». A meno di una omonimia si tratta di Bernardino Filipponi, amministratore delegato della Daneco impianti, già sotto inchiesta a Milano e Benevento. Lo sbarco della Daneco in Sicilia fallisce: la giunta Lombardo blocca l’affare degli inceneritori. Ma rimane qualche strascico. La vicenda è da oltre un anno sotto il setaccio della Procura di Palermo, che ha ricevuto anche un fascicolo aperto a Catania sull’aumento di valore dei terreni di Bella a contrada Cannizzola.
CARTE FALSE
A leggere le carte sarebbe dovuta essere una discarica modello. Tutto in regola, permessi, relazioni idrogeologiche, vincoli. Solo che le carte non rispecchiavano la realtà. È quanto sostiene la Procura di Lamezia Terme sulla discarica di Pianopoli, in Calabria, autorizzata nel 2004 grazie a un’ordinanza (n. 2873) dell’allora commissario per l’emergenza rifiuti in Calabria Giuseppe Chiaravalloti, ex presidente della Regione. A ricevere il permesso per realizzare e gestire l’invaso per rifiuti speciali non pericolosi è la società Eco Inerti di Vercelli, che trova tutte le porte aperte: l’area ha un vincolo idrogeologico che viene superato con un nulla-osta del Corpo forestale, concesso in sole 48 ore di burocrazia efficientissima. Così come è superata la relazione idrogeologica del 1987, allegata al Piano regolatore del Comune, che descriveva la zona talmente instabile da «sconsigliare l’edificazione». Poco dopo aver ricevuto l’autorizzazione per l’inizio dei lavori, il 15 gennaio del 2005, la Eco Inerti viene ceduta alla Ile srl, controllata dalla Daneco Italimpianti. Il valore dell’impresa schizza da 10mila a 3 milioni di euro. Ma cittadini, pochi consiglieri comunali e numerose interrogazioni parlamentari mettono sotto accusa la discarica: il progetto della Eco Inerti è ben diverso dalla realtà. La discarica è circondata dall’acqua: oltre alle falde sotterranee, lì vicino scorre il torrente Grotte, il cui letto è usato fino a ottobre 2010 come unica via d’accesso. Al centro dell’area c’era addirittura un pozzo per irrigare i campi. La magistratura apre un’inchiesta e nel settembre 2010 il gup rinvia a giudizio amministratori della Eco Inerti e progettisti. Secondo i pm avrebbero tratto in inganno il Comune di Pianopoli e il commissario per l’emergenza «prospettando una realtà dei luoghi diversa da quella esistente», sostenendo, cioè, «che il terreno non era interessato da movimenti franosi, che sullo stesso non esistevano falde acquifere, che il terreno avesse una permeabilità superiore a quella effettivamente esistente e che sullo stesso non esistevano coltivazioni agricole». Nonostante i problemi con la giustizia, nel 2008 la società riceve l’autorizzazione regionale per l’esercizio della discarica e chiede un ulteriore ampliamento, fino a 1,3 milioni di metri cubi di capacità. A novembre 2010, con la discarica aperta ai rifiuti urbani di 50 Comuni, arrivano le piogge e ritorna la magistratura: durante un sopralluogo i Noe e l’Arpacal scoprono, tra varie irregolarità, uno scarico abusivo di acqua mista a percolato, che rischia di inquinare il fiume Amato. Scatta il sequestro, richiesto dal pm lametino Salvatore Vitello. Alla fine di novembre la discarica è riconsegnata alla Daneco a cui viene ordinato di rimuovere il tubo e mettere tutto in regola. Ma per la Daneco la tubatura era antecedente alla costruzione della discarica ed era stata chiusa prima del luglio 2010. Solo accidentalmente le forti piogge l’avevano riaperta. Una vicenda molto simile a quella che aveva spinto i pm di Benevento ad aprire un’inchiesta su un’altra discarica della Daneco, quella di Sant’Arcagelo Trimonte.
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